Avessi un trono d'angeli e catene,
L'immensità del mondo oltre lo sguardo
Da soffiar via col palmo della mano...
Potrei recare pace ai miei silenzi.
Ma resto fermo, e l'orlo del mio cielo
Tra i merli si frastaglia, lassù in cima:
Dovrei scambiare il peso dei miei affanni
Con una lacrima? Per quale gloria?
Non sono il re di tutto l'universo,
Né un fregio tatuato sulla storia;
E se degli anni rimarrà qualcosa
Non mia, ma d'altre voci la memoria.
S'erge solenne, baluardo assorto
Tra l'incuranza atavica del tempo
E il fremere pulsante del ricordo,
Come dei menestrelli il più silente.
Qui il sordo drappeggiare dei vessilli,
Il dolce decantare dei poemi,
Qui le condanne, i patti, le sentenze,
I duelli, il clangore delle lame.
Qui le fatiche tra le stanche risa
Vene di vino, biondi desideri
Negli occhi specchi delle cortigiane,
Dietro le gonne, al fondo dei pensieri.
Adesso, anima lisa, si conforta,
Poesia d'argento, genesi del canto,
E porta altrove un'illusione bianca
Che si colora agli angoli del vento.
Mi giunge, delicato minuetto
Come gentil commiato alle mie orecchie:
E s'addormenta piano, carezzando
Gli ultimi sogni al ciel che si rabbuia. | | |
Echeggia la poesia epica in questo poemetto dal ritmo
incalzante. Quadri di vita cortese si susseguono veloci sostituendosi alle
immagini, fotografia del passato. Al poeta, menestrello del duemila, non
resta che cantare il fu, l'essere e il divenire del castello. |